1854-1855

L'ultima malattia e la morte

Profilandosi il tramonto della sua avventura terrena Rosmini nell'agosto del 1854 va a Borgomanero per dettare le sue ultime volontà. Lascia eredi dei suoi beni due confratelli, perché ne dispongano a favore dell'Istituto della Carità. Poi parte per Rovereto, dove l'aggravarsi del male che ormai lo sta devastando lo costringe a prolungare il suo soggiorno fino alla metà di ottobre. E qui rientrato a casa dopo una cena presso alcuni parenti, in preda a una violenta crisi epatica, confida alla cognata: «Sono stato avvelenato». Quindi lascia per l'ultima volta Rovereto e torna a Stresa.
Riprende in mano gli scritti filosofici, in particolare la Teosofia, e getta le basi per la sua ultima iniziativa, l'apertura di una tipografia, alla quale, in onore di san Gerolamo grande traduttore della Bibbia, dare il nome di "Stamperia gerolimana". Ma non avrà la fortuna di vedere il primo libro che vi sarà stampato. Le sue condizioni di salute si aggravano a vista d'occhio. Gli attacchi di fegato e le emorragie si susseguono a ritmo incalzante, con dolori lancinanti. Il 30 dicembre 1854 tiene un discorso ai superiori delle comunità rosminiane, stretti per l'ultima volta attorno al loro padre e fondatore.
Appena si sparge la notizia della sua malattia, Stresa diventa la meta di un commosso pellegrinaggio. Dopo trent'anni, ritorna Niccolò Tommaseo, l'amico irrequieto, conosciuto ai tempi dell'università, ormai quasi cieco e vacillante sulle gambe.
Nel maggio del 1855 Rosmini designa il futuro Vicario generale che dovrà guidare l'Istituto della Carità alla sua morte: la scelta cade su don Giambattista Pagani, Preposito provinciale della provincia inglese.
Il 16 giugno giunge a Stresa Ruggero Bonghi, al quale Rosmini sussurra il congedo: «Addio, caro Bonghi, addio». E lo stesso giorno alla lunga lista degli addii si aggiunge il nome di Alessandro Manzoni,  l' amico più caro a Rosmini: il loro ultimo incontro si chiude con tre parole di Antonio: «Adorare, tacere e godere». Il 26 giugno ritorna il Tommaseo; tra i due, un lungo ed affettuoso abbraccio e le lacrime dell'amico ritrovato, anche se in realtà mai smarrito.
La notte del 30 giugno è quella della lunga agonia: otto ore strazianti, il corpo ridotto al fantasma di un uomo, scosso dai brividi e lacerato dalle contrazioni. Poi la fine, all'una e mezzo del 1° luglio 1855.

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