I Rosmini-Serbati

Antonio il filosofo (1797-1855)

Secondogenito - nasce il 24 marzo 1797 - di Pier Modesto Rosmini e della contessa Giovanna Formenti di Biacesa fu accolto con particolare gioia in quanto primo figlio maschio, naturale continuità di una famiglia dalle antiche origini. Dai genitori, Antonio imparò a coniugare austerità e dolcezza: la severità essenziale e aristocratica del padre gli insegnò ad affrontare i disagi della vita con grande dignità, a guardare con distacco, ma senza disprezzo, ai beni materiali, da usare sempre come mezzi e mai come fini; dalla madre ereditò una straordinaria sensibilità che lo farà capace di grandi amicizie e profondi sentimenti.
La sua prima scuola furono le mura di casa dove il maestro privato don Francesco Guareschi gli insegnò a leggere e scrivere; frequentò la scuola elementare pubblica (1804) e nel 1808 venne iscritto al locale Ginnasio. Terminati gli studi ginnasiali, fu affidato agli insegnamenti di don Pietro Orsi, che gli farà scoprire il mondo della filosofia. Lesse tutto quanto gli capitava sottomano, approfondiva, annotava, discuteva animatamente con il suo insegnante. Nel 1815 la sua vivacità intellettuale venne premiata e a soli 18 anni fu accolto nella prestigiosa Accademia degli Agiati. Nel 1816 terminati gli studi superiori, per assecondare la sua vocazione religiosa scelse di iscriversi alla Facoltà di Teologia dell'università di Padova, dove oltre alla teologia poté frequentare anche le lezioni di medicina, fisica, astronomia e matematica. Strinse nuove amicizie, la più importante con Niccolò Tommaseo, che lo portò a diventare un raffinato studioso della lingua italiana.
Nel 1820 la morte del padre gli impose di farsi carico della responsabilità della famiglia e dell'amministrazione dell'ingente patrimonio ereditato. Nel 1821 fu ordinato sacerdote - a Chioggia perchè a Trento la sede vescovile era vacante - e l'anno successivo venne chiamato al suo primo impegno pastorale: sostituire il defunto don Bartolomeo Scrinzi nella guida della parrocchia di Lizzana. Assolto l'incarico parrocchiale, ritornò a Padova per laureasi in teologia e diritto canonico e successivamente rientrò a Rovereto. Ma i confini della città natale erano troppo angusti per un uomo alle prese con grandi pensieri e progetti: si trasferì quindi a Milano (1826) dove il cugino Carlo lo introdusse nei salotti culturali milanesi e gli fece conoscere - tra gli altri - il conte Giacomo Mellerio vice governatore di Milano e Alessandro Manzoni.
Nel 1828 l'idea che lo accompagnava sin da giovane di fondare un nuovo Istituto religioso che abbia come anima e fine la carità si concretizzo al santuario del Sacro Monte Calvario di Domodossola dove fondò una piccola Congregazione - seme del futuro Istituto della Carità - che nel 1831 su richiesta del vescovo Francesco Saverio Luschin portò anche a Trento.
Per lo scopo a Trento acquistò, fece restaurare ed ampliare a sue spese il palazzo detto della Prepositura e l' annessa chiesetta di S. Margherita e in attesa della necessaria approvazione vescovile diede avvio all'attività della piccola comunità. Ma mentre per le case aperte nel resto d'Italia a breve aveva ricevuto la necessaria approvazione vescovile, qui ritardi, tentennamenti, mancato consenso dell'imperatore asburgico, mancata approvazione vescovile ebbero come conseguenza la chiusura nel 1833 della «Casa religiosa del santissimo Crocifisso» e lo scioglimento della piccola comunità rosminiana.
Nel 1834 a Rovereto morì l'arciprete della parrocchia San Marco e dietro ferma richiesta dei roveretani il vescovo Tschiderer lo nominò arciprete. Il 5 ottobre 1834 Antonio fece il suo ingresso in parrocchia. Lo stile deciso che caratterizzò ogni sua attività - non aveva peli sulla lingua, denunciava coraggiosamente scandali e immoralità - gli creò più di un nemico tanto che la polizia, sospettandolo una spia dei piemontesi al servizio dei Savoia, gli ritirò il passaporto e gli impedì di tornare a Domodossola. Nel 1835, un anno dopo la nomina, rassegnò le dimissioni da parroco e in attesa di ottenere l'autorizzazione a lasciare il territorio del Lombardo-Veneto e tornare al Calvario, ritornò a Milano.
Ben diversa fu fin dall'inizio l'accoglienza in territorio piemontese: il re Carlo Alberto nel 1836 gli affidò la cura dell' antica abbazia della Sacra di San Michele in Val di Susa e la nobildonna Anna Maria Bolongaro gli mise a disposizione sulle sponde del lago Maggiore - a Stresa - una casa immersa nel verde, dove Antonio trasferì la sua dimora abituale. Qui proseguì i suoi studi, scrisse nuove opere, ricevette gli amici - primo fra tutti Alessandro Manzoni - da qui partì spesso alla volta di Torino, dove strinse nuove e importanti amicizie, come quella con il marchese Gustavo di Cavour. E da Roma papa Gregorio XIV lo esortava ad inviargli copia delle Costituzioni - le regole della nuova Congregazione - che non avevano ancora ricevuto l'approvazione papale. Dopo iniziali incomprensioni - soprattutto per le polemiche sorte con la Compagnia di Gesù - e la modifica di alcuni punti, finalmente il 20 settembre 1839 Gregorio XVI firmò il decreto di approvazione. Anche gli anni dal 1840 al 1847 che trascorse all'insegna dello studio e della cura del suo Istituto, furono attraversati dalle polemiche con i Gesuiti che cercavano in tutti i modi lo scontro con le teorie filosofiche esposte nelle sue opere. Nel 1848 l' Europa è percorsa dai brividi di impetuosi nazionalismi; in molte parti d'Italia il sogno dell'unità era ormai un sentimento diffuso.
L'imperversante patriottismo, al cui avvio in qualche misura contribuirono le prime decisioni liberali di Pio IX, indusse lo stesso papa a concedere una Costituzione più liberale anche nello dello Stato pontificio. La situazione politica del momento lo indusse a scrivere una serie di riflessioni che fece pervenire a Pio IX, il quale considerandole di notevole interesse, manifestò subito il desiderio - lo stesso di Carlo Alberto il quale gli affidò l'incarico di una missione diplomatica a Roma presso il papa - di averlo come consigliere e di nominarlo cardinale nel Concistoro previsto per dicembre. Ma durante l'estate il Governo dello Stato pontificio entrò in crisi, gli eventi precipitarono, Roma sfuggì al controllo di Pio IX, che nel novembre del 1848 decise di abbandonare la città e rifugiarsi a Gaeta nel Regno di Napoli chiedendo ad Antonio di seguirlo.
L'ampia considerazione che Pio IX riponeva in Antonio scatenò le invidie di alcuni membri della corte pontificia, in primis del cardinal Antonelli che tentò in tutti i modi di allontanarlo dal papa, alimentando - sempre con l'aiuto dei Gesuiti - una nuova polemica per ottenere la condanna delle sue teorie teologiche, considerando che un uomo sospettato di "eresia" non potesse più puntare al cardinalato e nemmeno continuare ad essere consigliere del pontefice. La polemica si protrasse fino al maggio 1849 quando la Congregazione dell'Indice in gran segreto condannò Le cinque piaghe della Santa Chiesa e la Costituzione civile secondo la giustizia sociale obbligando il papa a firmare il decreto di inserimento delle due opere nell' «Indice» l'elenco dei libri proibiti.
Nel 1850 lasciò la casa sulla collina di Stresa e si trasferì sul lungolago nella splendida villa - che d'ora in poi lascerà raramente - lasciatagli in eredità da Anna Maria Bolongaro. A interrompere lo scandire delle sue occupazioni quotidiane e dei suoi interessi - il suo Istituto, la preghiera, lo studio - furono spesso le visite degli amici, soprattutto il marchese Gustavo di Cavour, Ruggero Bonghi e Alessandro Manzoni.
Dopo qualche anno di silenzio le polemiche intorno ai suoi scritti - sempre per merito dei Gesuiti che puntavano alla soppressione del suo Istituto - si risvegliarono. Con un' operazione culturalmente scorretta, dalla sua vastissima produzione filosofica i suoi avversari stralciarono - slegandole dal contesto in cui erano inserite - 327 tesi che pubblicarono in un opuscolo denunciandone il contenuto eretico. Nel luglio 1854 dopo che la Congregazione dell'Indice incaricata dell'indagine sulle tesi comunicò che non vi era nulla da censurare nella dottrina rosminiana, ma al contrario nei suoi confronti espresse giudizi lusinghieri, i nemici di Antonio giocarono l'ultima carta: chiesero che l'esame delle sue opere fosse assegnato a un altro organismo vaticano, il Sant'Uffizio. L'esito dell'esame vide tutti i membri della Congregazione uniti nel ritenere che non vi fosse una sola tesi rosminiana da censurare, ma divisi sulla condanna dei suoi avversari e sulle modalità della «riabilitazione» di Rosmini. L'intervento diretto del papa con il «Dimittantur...» (Si dimettano tutte le opere di Antonio Rosmini-Serbati delle quali recentemente s'era istituito esame) archiviò il caso ma non lo risolse definitivamente.
Profilandosi il tramonto della sua avventura terrena nell'agosto del 1854 si recò a Borgomanero per dettare le sue ultime volontà e poi partì per Rovereto, dove l'aggravarsi del male che ormai lo stava devastando lo costrinse a prolungare il suo soggiorno fino a metà ottobre. E qui - a Rovereto - rientrato a casa dopo una cena presso alcuni parenti, in preda a una violenta crisi epatica, confidò alla cognata: «Sono stato avvelenato». Quindi lasciò per l'ultima volta la sua città natale e rientrò a Stresa. Le sue condizioni di salute si aggravarono a vista d'occhio, gli attacchi di fegato e le emorragie si susseguirono a ritmo incalzante, con dolori lancinanti. Appena si sparse la notizia della sua malattia, Stresa diventò la meta di un commosso pellegrinaggio, in primis degli amici Niccolò Tommaseo, Ruggero Bonghi, e Alessandro Manzoni al quale sussurrò il suo testamento spirituale «Adorare, tacere e godere». Morì a Stresa il 1 luglio 1855.